Soffrire di #Anoressianervosa, #Bulimia, #Bingeeating, #ChewandSpiting non è un capriccio. È molto doloroso, a volte può esserlo troppo. Eppure quante volte avete criticato un’amica tormentata dall’idea di sentirsi e vedersi grassa?
Quante volte avete pensato che dietro ci fosse solo mania di protagonismo? Quante volte vi siete sbagliati?
Ricordatelo ogni volta che aggredite qualcuno che ne soffre, anche quando non lo sapete, anche quando non sembra perché i suoi vestiti lo nascondono, anche quando davanti a voi mangia ma non vi spiegate perché subito dopo si chiude in bagno o prima ha fatto decisamente troppo sport. Non arrabbiatevi perché non ne ha parlato con voi, proprio con voi che la capite più degli altri: è normale, non si può capire fino in fondo una voce che non si ascolta.
La loro è una sofferenza che entra di prepotenza nella vita delle persone, entra anche nelle vostre. Il “non mangiare” non è una scelta razionale, consapevole. È molto altro, è molto di più, è qualcosa che non si cura dicendo “ma dai, per un cucchiaio in più di pasta (o di olio o una forchettata di torta o tutto quello che vi passa per la testa) cosa vuoi che succeda?!”… o tantomeno non si risolve con la conclusione “fai quello che vuoi basta che mangi”: è qualcosa che DEVE ESSERE compreso, indagato, perché solo riconoscendo cosa spinge una persona a reagire così drasticamente e a odiarsi cosi tanto, si può provare a estirparne la radice dall’animo.
È stato il XX secolo, con i suoi cambiamenti storici e politici a stravolgere la percezione della realtà, a trasmettere come una febbre quell’insicurezza nel vivere sociale che si sviluppa chiaramente nel micro-cosmo familiare, nella destrutturazione dei ruoli e nella minimalizzazione dei sintomi.
Il benessere economico, il maggiore approvvigionamento alimentare che diventa motivo di crisi e discriminazione tra condizioni sociali e storiche di vita, e a un certo punto scoppia in uno specchio di manifestazioni incontrollabili della psiche. Jung lo capisce e lo scrive, lo sbatte in faccia come (personalissimo parere) nessun altro psicanalista aveva fatto (ne consiglio la lettura a chi volesse saperne di più per comprendere e comprendersi) e comincia a provocare come un’onda anomala la reazione della consapevolezza fino a quel momento sporadica intuizione di nicchia: il cibo sta diventando un problema, un problema diverso da quello che è stato fino a quel momento per il resto del mondo. Il cibo non è più conquista di serenità economica, ma motivo di vergogna e disagio, è gabbia per milioni di giovani.
È come un boato, un terremoto: i disturbi del comportamento alimentare spaventano allo stesso modo perché non si vedono subito, ma molto spesso se ne viene travolti e possiamo subirne solo le conseguenze. Il disturbo del comportamento alimentare si va dunque a insinuare in un contesto sociale che funge da catalizzatore della diffusione di sindromi “culture bound”, legate a mutazioni della nazione e del paese rispetto a cui il soggetto con DCA non trova il proprio posto, o meglio reagisce in maniera troppo sensibile, disadattandosi ed escludendosi. Le conseguenze di un DCA sono fattori che favoriscono il mantenimento del disturbo stesso. Tra questi la perdita di peso ha il primato per essere il “migliore peggior nemico” di una ragazza anoressica: il traguardo iniziale non basta più, e se ne pone un altro più ambizioso, come se, talvolta, lo scopo non fosse più il peso ma sconfiggere quella parte di razionalità che si esprime con i crampi lancinanti e il ciclo che non viene più, e le ipotermie e le mani fredde che fanno male e il sudore dopo uno svenimento.
Gli ultimi dati epidemiologici confermano che il tasso di diffusione dell’Anoressia Nervosa si stia mantenendo piuttosto costante; mentre la Bulimia è in continuo aumento.
Lasciando da parte i dati epidemiologici del problema, vorrei solo scrivere di alcuni caratteri distintivi di soggetti affetti da questo disturbo.
Quasi sempre si tratta di persone brillanti a scuola e nella vita, sono perfezioniste. Sono capaci di arrivare a sopportare là dove il più presunto caparbio rinuncia. Cucinano tantissimo, soprattutto per gli altri. Stanno in silenzio e vedono il frutto del loro sacrificio appesantire le loro anime. Qualcuno si chiede perché? Se fosse semplice rispondere a questa domanda, probabilmente questo post non avrebbe ragione di esistere.
I fattori scatenanti sono invisibili per la maggior parte della gente, sono dettagli che diventano paure sempre più grandi e che finiscono per nutrire un corpo sazio della propria solitudine.
In questi due anni di libera professione ho visto gente mollare e gente guarire. Ho imparato a ricominciare a da capo, ho imparato a mettere da parte la dieta e ho ascoltato, osservato, sono stata complice per riuscire a guadagnami la fiducia dei miei pazienti, e a un certo punto ho anche riconosciuto quando era giusto mantenere la distanza. Nel mio studio non intendo misurare solo peso, altezza, circonferenze e chiedere perché non mangi.
Voglio fare del mio metodo professionale, del mio lavoro di trattare i miei pazienti (tutti!) un’arma imbattibile nella lotta a questo problema sociale. Cresco, giorno dopo giorno, insieme ai miei pazienti. E mi ripeto che ogni battaglia non sarà finita finché non sarà vinta, ricordando un vecchio motto di Lawrence Peter “Yogi” Berra.
Vorrei lanciare un messaggio a chi proprio adesso si trova all’inizio di questo tunnel. È un attimo finirci dentro, se volti le spalle e sei da sola, vedi solo il buio in cui ti senti cullata e compresa. Ma nel buio non vedi il nemico e ogni passo che fai lo rende più forte. Se invece riesci a capire il valore della tua vita, di ogni tuo singolo gesto, se trovi al tuo fianco almeno una persona che sappia farti capire che sei libero, mentalmente e fisicamente, che sappia (farti) apprezzare te stesso per l’unicità che ti contraddistingue, sarai sulla buona strada per uscirne.
DAI PESO ALLA TUA VITA!
